Cosa significa per un giovane paziente e la sua famiglia vivere senza una diagnosi
Il Presidente Maspes è stato intervistato da Johann Rossi Mason dell’Osservatorio MOHRE (Mediterranean Observatory on Harm REduction) per raccontare cosa significhi per un giovane paziente e la sua famiglia “vivere senza una diagnosi”.
Riportiamo di seguito l’intervista integrale.
Fonte: mohre.it
Non hanno nome e cognome ma esistono e coesistono con sintomi e gravi disagi; sono le malattie senza diagnosi e isolano il paziente in un limbo. Non hanno uno specialista, un riferimento, una cura.
Spesso sono malattie così rare da non essere state ancora identificate e, in molti casi, mai verranno identificate.
In altri casi sono vittime di un ritardo diagnostico, a causa della singolarità o generalità dei sintomi. Si stima, infatti, che il 60% dei pazienti rari attenda circa 2 anni prima di ricevere una diagnosi precisa ma i numeri sono ancora più impressionanti: a livello europeo il 25% attende tra 5 e 30 anni prima di ricevere una diagnosi definitiva e in questo lasso di tempo il 40% rimanga con una malattia senza nome o riceve una diagnosi errata (dati Eurordis).
Nel mondo – fanno sapere dalla Fondazione Hopen – ci sono circa 350 milioni di persone affette da malattie genetiche rare. Le sindromi conosciute sono circa 7.000 che coprono meno del 50% dei malati rari. Inoltre, secondo una stima elaborata nel Regno Unito, ogni anno nascono 6.000 bambini che rimarranno senza diagnosi. Un dato che, proiettato sull’Europa, ci racconta di 65mila nuovi casi l’anno destinati a rimanere nel limbo delle malattie senza nome. In Italia, poi, le stime dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma fanno riferimento a oltre un milione i ragazzi affetti da una malattia rara sotto i 16 anni, il 40% dei quali rimarrà senza diagnosi.
Abbiamo chiesto al Presidente della Fondazione Hopen Onlus, Federico Maspes, di spiegarci cosa significa per una famiglia e un paziente vivere senza una diagnosi
Come ci si prende carico di una malattia senza diagnosi?
È una domanda complessa, che potrebbe avere mille risposte e nessuna: significa occuparsi di tutti quei malati che sono portatori di una malattia che non è stata ancora diagnosticata, quindi non ha un nome, non è conosciuta, letteralmente “non esiste”.
La condizione di non esistenza purtroppo “legittima” il non essere visto, riconosciuto e, di conseguenza, aiutato non solo in regime ospedaliero.
Ho vissuto e vivo tutt’ora, con la mia famiglia, questa condizione. Mia figlia Clementina oggi ha 27 anni ed ogni singolo giorno della sua vita ci siamo sentiti soli ed abbandonati, sconfitti.
Abbiamo incontrato i più grandi professori, abbiamo contattato e visto personalmente esperti di tutto il mondo per sottoporla alle visite specialistiche.
Pochissimi hanno avuto l’onestà di dirci “vostra figlia è affetta da una malattia genetica rara non diagnosticabile” e che è possibile che i sintomi non siano riconducibili ad alcuna patologia descritta in letteratura.
È stato proprio questo sentimento di frustrazione ed inadeguatezza a darmi la spinta per fondare HOPEN, per dire a tutte quelle famiglie, come primo passo, di accettare la propria figlia per quello che è, riconoscere le sue difficoltà e le sue straordinarie doti di sensibilità. Hanno bisogno di noi prima della diagnosi.
Il terribile percorso per la ricerca della diagnosi, inevitabilmente, distrae e coinvolge tutta la famiglia con ripercussioni ambientali non sempre positive.
Prendersi carico di una malattia senza diagnosi significa imparare a vedere, ascoltare e supportare le famiglie, indirizzarle verso i centri specializzati, coinvolgerle in attività affinché possano sentirsi parte di una comunità ed aiutarle a comprendere che esistono le malattie rare e che tra queste ce ne sono molte che non sono ancora conosciute.
La mancanza di diagnosi è una condizione che descrive bambini con ritardo multifunzionale affetti da una sindrome molto probabilmente genetica che i medici non sono stati finora in grado di identificare.
Come si affronta la sofferenza del paziente?
Molte volte mi sono chiesto cosa passi nella testa dei nostri figli. Noi genitori siamo alle prese con la perenne e totale agitazione, frustrati dal non sapere da quale malattia sono affetti, e mi domando: “se non capiamo noi, come fanno a capire loro?”. I piccoli pazienti spesso non hanno nemmeno le facoltà di poter dire di cosa necessitano. Alla base di tutto c’è che hanno bisogno di umanità, di essere compresi. Vengono sottoposti a numerosissime indagini anche molto invasive, hanno necessità di essere coccolati ed accompagnati con cura ed amore, da personale altamente formato. L’ironia della sorte è che nella maggior parte dei casi sono proprio loro, così piccoli e spaventati, ad avere le parole, i gesti, per supportare noi genitori, per darci la forza di andare avanti.
Quali sono le conseguenze del senso di frustrazione?
Si può perdere di vista l’obiettivo, ovvero la felicità ed il benessere dei nostri figli. Si rischia di focalizzarsi totalmente sulla ricerca della diagnosi, tralasciando il rapporto con il figlio stesso, trascurando momenti di vita quotidiana che sarebbero invece fondamentali sia per i figli che per i genitori. Inoltre, questo stato di totale abbandono da parte della società (in quanto “malato non riconosciuto”) può portare le famiglie a chiudersi ulteriormente, ad isolarsi e quasi a provare un senso di abbandono e sconfitta per la propria condizione. In realtà, la chiave di tutto è proprio cercare il contatto ed il confronto con chi si trova a dover affrontare la stessa condizione. Questo è uno dei motivi per cui HOPEN organizza progetti dedicati sì ai ragazzi, ma anche alle loro famiglie, proprio per far crescere questa comunità ed il senso di appartenenza.
Quali sono gli effetti psicologici di questa situazione?
È una situazione che mette a dura prova tutti i componenti della famiglia, dai genitori ai fratelli ma anche i nonni e gli zii. È una situazione talmente irreale che realmente coinvolge tutti, specialmente nei primi anni di età del paziente, tutti si documentano, fanno ipotesi, si mettono a disposizione per offrire il proprio sostegno ma al contempo, tutti sono logorati dalla mancanza di riposte e dall’impossibilità di poter agire in modo mirato per intervenire sul miglioramento della condizione clinica del proprio familiare.
Senza una diagnosi, non c’è terapia e purtroppo non ci sarà mai la prognosi.
Immaginate come ci si possa sentire senza risposte: semplice, non si è in grado di affrontare i problemi dei propri figli.
Senza una diagnosi è molto difficile testare o prevedere anche la possibilità di avere altri figli e non si può sapere se i fratelli del malato senza diagnosi, o i futuri nipoti, potranno avere le stesse problematiche. È una condizione che mette a dura prova la coppia, ma anche il rapporto con gli altri figli, se presenti.
E’ possibile che siano applicate terapie inefficaci o controproducenti?
Nella gran parte dei casi è purtroppo inevitabile fare i conti con terapie inefficaci o controproducenti. Non conoscendo il nome della malattia, non si conosce nemmeno la cura si inizia quindi un lungo calvario alla ricerca del giusto equilibrio nella somministrazione di farmaci e terapie, peraltro sintomatiche, per comprendere quale sia la strada giusta per migliorare le condizioni del paziente. È un percorso che dura anni.
Avete deciso di dedicarvi della presa in carico delle famiglie, con quali strumenti?
La Fondazione Hopen, di cui sono Fondatore e Presidente, è un punto di riferimento per tutte quelle famiglie che vivono ogni giorno la condizione di frustrazione e di isolamento, e spesso di abbandono da parte della società e delle Istituzioni. Per tali motivi la Fondazione ha tra gli obiettivi primari quello di colmare questo vuoto offrendo ascolto, supporto, consulenza e informazioni utili alle famiglie al fine di orientarle nel difficile percorso che devono affrontare quando non c’è una diagnosi. In particolare, Hopen facilita l’inserimento dei pazienti all’interno della rete ospedaliera grazie alla collaborazione con l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma.
Nel 2019 siamo riusciti a realizzare Casa Hopen attraverso il contributo della Fondazione Vodafone Italia, ma non è stato semplice. Ci sono voluti due anni per trovare una sede, che alla fine abbiamo identificato in una struttura messa a disposizione dalla parrocchia Santa Maria delle Grazie a Casal Boccone. Oggi i nostri ragazzi arrivano da tutta Roma grazie anche ad un pulmino, messo a disposizione delle famiglie. Nella sede di Casa Hopen si svolgono attività multidisciplinari quali: laboratori, musica, arte, teatro, attività motoria, orto a Km 0 e presso l’ippodromo delle Capannelle i ragazzi svolgono 2 volte a settimana attività con i cavalli e gli asini. L’attività sportiva (discipline equestri integrate, karate, danza e corpo libero) è il fiore all’occhiello della Fondazione. Attraverso lo sport i ragazzi imparano a seguire le istruzioni dei maestri, si relazionano tra loro e si supportano a vicenda. Noi crediamo molto nel potere terapeutico dello sport e delle attività di gruppo. Questi progetti si svolgono tutti i giorni dal lunedì al venerdì e sono completamente gratuiti.
E’ più difficile l’inclusione di un bambino senza diagnosi?
Quello dell’inclusione è uno dei temi principali da affrontare, quando si tratta di pazienti senza diagnosi.
Se si parla di “malato” la prima associazione, automatica, è quella con la malattia da cui è affetto. Il malato è riconosciuto come malato proprio perché affetto da una malattia.
Senza il nome della malattia, il nostro malato diventa invisibile, non inquadrabile e quindi non collocabile.
Proprio per questo le famiglie vivono uno stato di totale abbandono senza il supporto della società e delle Istituzioni.
Come dicevo prima, questi malati non hanno un volto, non hanno punti di riferimento né associazioni a cui rivolgersi, sono di per sé già degli emarginati tra gli emarginati.
Spesso le limitazioni fisiche ne impediscono il coinvolgimento in attività sportive di gruppo, le difficoltà linguistiche e/o cognitive sono un limite anche per le semplici relazioni interpersonali ma c’è da dire che la scuola è una risorsa fondamentale. È ciò che permette a questi bambini di mantenere attiva la propria socialità attraverso il gruppo classe.
La conclusione del percorso scolastico rappresenta, infatti, un momento drammatico per questi bambini, ormai diventati ragazzi, e le loro famiglie. La drammaticità di questo momento è legata soprattutto al distacco dal contesto sociale sino ad ora frequentato, i ragazzi si ritrovano soli, senza un impegno (che nella normalità è dato dallo studio o dal lavoro) con interminabili giornate da riempire.
Per rivedere l’articolo su more.it clicca qui